Il suo blog Cinegastronauta- la cucina della taranta è un piccolo gioiello di cultura e di ricerca enogastronomica territoriale. Titti Pece è molto più di una storica dell’arte e copywriter: è una donna che racconta il sapore e il gusto della nostra terra come esperienza sensoriale intellettiva e culturale. In questa intervista, ricca di spunti di riflessione, ci ha raccontato il suo nuovo progetto ” la cucina sentimentale” con un occhio al futuro della cucina tradizionale.
- Da quanti anni ti dedichi al recupero e alla valorizzazione dell’enograstonimia salentina e perchè lo fai ?
Meravigliosa domanda, che mi costringe a riflettere. Io non mi dedico propriamente e intenzionalmente al recupero e alla valorizzazione della cucina salentina – io cerco il “sapore” (“il sapere non è altro che il dolce assaggio del sapore”, diceva Roland Bartes) e lo racconto dove lo trovo. Solo che il “sapore” prima che in un piatto sta nel “palato” e il “palato” è storico e “geografico” e quindi sta nei luoghi e nelle persone che li abitano: dal come li abitano e in ciò che hanno da quei luoghi ereditato.
Essendo io per formazione una storica dell’arte, quindi dei linguaggi, ed essendo la cucina un linguaggio, mi sono trovata non per caso a occuparmi di cucina salentina: per il piacere di raccontare i luoghi che io stessa abito.
Come spesso accade, tutto nacque da un libro: “Trattati di cucina dal medioevo all’età moderna”. Lo acquistai tanti anni fa, tra i classici Einaudi, acquistato a rate. Lo divorai. Poi mi misi a cucinare: pranzi barocchi, pranzi medievali. Una lunga ricerca per recuperare gli ingredienti giusti e poi le prove di gusto a tavola. Facevo letteratura in cucina, ovvio! Ma la cucina è letteratura o almeno lo diventa nel momento in cui se ne scrive e se ne narra. L’attenzione al Salento è venuta dopo. Quando ho voluto raccontarlo come lo sentivo io, insoddisfatta dell’erudizione e dei luoghi comuni con cui lo sentivo raccontato da altri (i famosi ‘studiosi locali’, quando va bene, altrimenti quelli del copia-incolla). Sai, io vengo anche dalle lezioni di Giulio Carlo Argan, che un giorno, mentre lo intervistavo per il Quotidiano di Lecce (con cui ho collaborato per motli anni) mi disse che un vero storico non è mai solo locale.
Allora mi occupavo di Beni Culturali. Le cucine le vidi così: come eredità, patrimonio e beni culturali da tutelare. E poiché il primo atto della tutela è la conoscenza, fu così che mi misi a studiare di cucine e di cibo. E mi appassionai. Ho capito che avevo ragione quando poi ho letto Italo Calvino in “Sotto il sole giaguaro”. Oggi vorrei scrivere un libro di ricette. Ma è difficile per una persona anarchica come me che non ha mai creduto in nessun tipo di ricette. Perché voglio farlo? Te lo dico citando Alain Ducasse; perché è proprio la sua tesi che voglio verificare: ”Certo, si può sempre mettere dell’olio di oliva o un pò di basilico in una salsa alla crema. Ma in questo modo si compie semplicemente un gesto. Non si integra così l’essenza di una cucina. Ci vuole più tempo. Il tempo necessario per assimilare la cultura annessa. Non è appropriandosi dei suoi prodotti di base che si fa una cucina mediterranea. Bsogna anche scoprirne lo spirito. Il quale risiede nella semplicità di una tradizione matriarcale.”
Archeologia dei sapori
2. Nei tuoi libri hai parlato di ‘Archeologia dei sapori’, un concetto che poi hai tradotto in laboratori esperenziali nel QuoquoMuseo del Gusto. In poche parole puoi dirci cosa intendi per “archeologia dei sapori”?
Un po’ ciò che si intende per archelogia in genere: stratificazioni storiche, reperti giunti a noi da altri tempi e da altri luoghi, ruderi a volte e anche frammenti, che ci permettono di ricostruire vecchie storie del palato, componendole in una Visioen Storica. Faccio un esempio: andiamo a vedere le Tavoe di San Giuseppe. Ci trovi “la massa” e ci trovi gli spaghetti al miele con un pesce fritto sopra. Sono due esempi di archeologia dei sapori: pietanze ormai fuori dall’uso quotidiano, non più corrispondenti al palato di oggi e che sono giunti sino a noi come ‘reperti’. Cosa resa possibile in questo caso grazie al rito devozionale che ne ha mantenuta intatta o quasi l’antica ‘ricetta’ .
Oggi per es. la pasta si mangia al dente, non scotta come una volta e come la troviamo nella “massa di San Giuseppe” . E anche gli spaghetti al miele: ricetta sparita dal menu della cucina salentina e di cui ho trovato testimonianza ancora nel ‘700, quando era cibo abituale nella mensa del Seminario di Otranto. Io parlo anche di restauro gastronmico. Ma questo è un altro capitolo, per altre storie. Una delle quali l’ho racchiusa per esempio nel mio “percorso esperenziale” della frisa. Risale ai tempi del Museo del Gusto, che per una serie di motivi, ho chiuso nel 2016 (di quella ‘frisa’ qualcosa ne disse in quegli anni anche l’ANSA, poi ripresa da la Stampa di Torino ( qui l’articolo)
La cucina sentimentale
3. Oggi parli di “cucina sentimentale” e di “cucina della taranta”: cos’è la cucina sentimentale secondo te e quali sono gli obiettivi di questo tuo nuovo progetto :
E’ la cucina come si è costruita e come si costruisce ogni giorno nell’immaginario di ognuno di noi (collettivo e individuale), costruendone e ricostruendone di volta in volta il ‘palato’: è la narrazione che dentro di noi ne facciamo, legata alla memoria e alle esperienze culturali e sociali. Anche qui faccio un esempio: il baccalà. Una cosa è dire che ti piace preparato in questa o in quella ricetta, tradizionale o gourmetnon importa. Altra cosa è ‘innamorarsi’ di una ricetta, per una storia che trova posto nel tuo immaginario, che sta nel tuo DNA sentimentale, dove ci sono le tue storie e i tuoi archetipi. In questo senso la cucina sentimentale è anche la cucina dei luoghi, ovvero quello’ spirito’ dei luoghi di cui diceva Ducasse ed è ciò che si cerca anche quando si viaggia (e qui bisogna leggere “Sotto il sole giaguaro”).
Che c’entra il baccalà? Ecco, per esempio, il suo sapore me lo può regalare un film come “Quemada” , “Sostiene Pereira” o la lettura di Vasques Montalban: la cucina è quindi un percorso di educazione sentimentale, un percorso di formazione: come si faceva nei viaggi del Grand Tour o come quando, a scuola, devi per forza leggere La Divina Commedia, Omero e i Promessi Sposi. Ecco, oggi io la vedo così. Mi pare l’unico modo per uscire dalla bulimia in cui la nostra epoca e la nostra ‘cultura’ è cascata. Una linea di confine. Una linea di ‘resistenza’. Dove per esempio le frittate non si trovano nei libri di ricette, ma nei film di Ettore Scola.
Mi chiedi del mio nuovo progetto. La cucina della taranta si ispira a tutto questo e anche ad altro. Per esempio a Quasimodo, in “Lettera alla madre:” “Non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro tutta la mia infanzia”- E forse non è un caso che il mio primo libro di ricette (“Di che pasta siamo fatti qui: Cavalieri si nasce” , dedicato alla pasta Benedetto Cavalieri) inizi proprio con una sorta di ‘lettera’ a mia madre.
Ma qualcosa c’entra anche Gualtiero Marchesi, che cito a memoria: “Abbiamo solo bisogno di cuoche e di cuochi. Le ricette esistono. Perchè star lì a inventare continuamente altre cose? – Cosa sarà il nuovo progetto? Sono ancora indecisa tra un romanzo e un libro di ricette. Mi piacerebbe scrive entrambi queste cose.
Chi sta uccidendo la cucina sentimentale?
4. Hai recentemente scritto che qualcuno sta uccidendo la cucina tradizionale: a chi si riferiva? E quali le cause e le conseguenze secondo te di questo fenomeno?
Sì, qualcuno sta uccidendo le grandi cucine di tradizione. E nessuno sembra accorgersene. E forse è inevitabile. Se le cucine sono legate ai luoghi, alla storia e alla geografia dei luoghi, e se questi luoghi cambiano, anche i comportamenti culturali che si manifestano attraverso le cucine cambieranno. E forse qualcosa resterà solo nel folclore. O forse no. La storia la fanno gli uomini (e le donne!). E noi, come dicevo, siamo su una linea di confine. Tra la globalizzazione e la resistenza dei luoghi, tra luoghi e non luoghi, in bilico tra massificazione e ‘identità’. Cose che più che opporsi, al contrario coesistono in ognuno di noi. Mi chiedo qual è il ruolo delle cucine di tradizione, che già sembrano appartenere ad altri palati che non ci sono più; ma non è per questo che spariranno. Spariranno quando nessuno più cucinerà in casa, pur essendoci nelle case grandi e pulitissime cucine; e quando la memoria che stiamo costruendo per figli e nipoti non sarà più come la ‘madelaine’ di Proust, ma somiglierà alla merendina industriale e al bastoncino surgelato. E poi c’è il narcisismo degli chef, peggio, molto peggio che quello degli artisti. Il motivo per cui a loro preferisco i cuochi e le cuoche. Per il semplice fatto che gli chef ci hanno fatto perdere il valore ‘sacro’ e ’sentimentale’ del cibo. E anche ci hanno tolto il profumo delle cucine. Insomma, per dirti come la vedo (ma solo da un certo punto di vista): il mondo è diventato piatto, le società liquide. Per questo tutti mangiano, ma nessuno si ricorda come si mastica. Cosa rimane? Quell’alloco del turista! Dall’altro punto di vista rimangono per fortuna i ‘viaggiatori. Che sapranno ritrovare e di nuovo raccontare le cucine, consentendo loro di non essere dimenticate.
Nessun sapore nasce in un luogo
5. Il cibo è anche narrazione, soprattutto quando ci si occupa di piatti tradizionali di un territorio che ne riflettono la cultura e la storia. Questa narrazione si può applicare ai social media e come? Secondo te ci sono dei rischi o delle precauzioni da prendere?
Molti rischi: le fake news e il copia-incolla. E anche il fatto che tutti scrivono ma pochi studiano risalendo alla storia e alle fonti. Precauzioni tante. La prima: imparare a riconoscere l’attendibilità e l’autenticità delle fonti. Sioprattutto non credere mai alle storielle di cibi o prodotti che sono nati in un luogo. Nessun sapore nasce in un luogo. I sapori viaggiano. E magari qualcuno o qualcosa si ferma in un luogo, dove di nuovo si trasforma. Non ditemi perciò che il pasticciotto è nato a Galatina e neppure che la scapece è nata a Gallipoli.
Da quel che vedo, a come funziona oggi, mi pare che quella dei social media non è una narrazione ma un vomito di origine bulimica. Un‘anestesia diffusa e totale, anche. Qui non posso che rimandare alla lettura di Umberto Eco. Molto più autorevole di me, non vi pare? E non conta se poi qualcuno c’è che è anche bravo. Conta il fenomeno come tale. Resta il fatto che da altri punti di vista il web è utilissimo. Se lo si usa imparando a cercare ciò che davvero serve. Se si impara a riconoscere per esempio le ‘bufale’, che anche in fatto di storie di cucine sono davvero tante.
6. Ci regali una ricetta? Qualcosa di ‘sentimentale’?
Siamo vicini al Natale. Mi piace questa: “Purgatoria” ovvero vermicelli al sugo di baccalà. Ricetta per le vigilie dell’Immacolata e di Natale. Con qualche film dedicato al baccalà – La racconto nel mio blog e la trovi qui . Più che un aricetta, è un viaggio nel piatto.
-
-
Libro Quoquo. La gola come ipertesto”, 2005
-
-
Libro Quoquo. La gola come ipertesto”, 2005
-
-
Libro di Titti Pece “Quoquo. Come le api al
miele”, 2007
-
-
Libro di Titti Pece “Quoquo. Come le api al
miele”, 2007
-
-
Nel 2015 al QuquoqMuseo del Gusto si festeggiano 10 anni di A
archeoloiga dei sapori
-
-
Nel 2015 al QuquoqMuseo del Gusto si festeggiano 10 anni di A
archeoloiga dei sapori